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  • Malakos

Per la serie "Storytelling" - Specie, sottospecie e razze


Brevi racconti di fantasia per spiegare temi più complessi


Specie, sottospecie e razze


Tempo di lettura: 13 minuti

L’indomani era domenica ed al museo nessuno si sarebbe immaginato di vederlo arrivare: “Professore! Viene a lavorare anche di domenica?! - Buongiorno signora! A lavorare? Noo! Non offendiamo chi lavora veramente: Io sono una delle persone più fortunate al mondo. Per me questo non è un lavoro; è la realizzazione del mio sogno, mettere su un museo tutto mio. Quindi io non lavoro: mi diverto; e poi per me la domenica è un giorno come un altro. Scendendo le scale che lo portavano al suo laboratorio, l’anziano ripensò però anche a quanto gli era costato il perseguire e raggiungere quel sogno: Il fallimento del suo primo matrimonio, l’aver vissuto poco l’infanzia delle figlie, gli anni vissuti in Australia. Poi, una volta ritornato in Italia, la fortuna di aver trovato Wanna, senza l’aiuto della quale non sarebbe mai riuscito a coronare il suo sogno. Sua moglie, infatti, lo aveva sempre spinto a proseguire nel lavoro per il quale aveva tanto studiato e sperato. Lo aveva spronato a non arrendersi alle tante delusioni, condividendo con lui ogni giorno sostenendolo ad ogni intoppo, incoraggiandolo ad andare avanti senza mai fargli pesare le difficoltà economiche che, periodicamente, scandivano la loro vita.

Mentre stava ancora accendendo le luci del suo laboratorio e riavviava i computer, udì una voce giovane e timida: “Buongiorno Professore, posso entrare?”. Voltandosi un po’ sorpreso mentre finiva ancora d’abbottonarsi quel suo camice bianco, rispose: “Prego si accomodi. Buongiorno!” Quell’esile ragazzina avrà avuto si e no sedici anni ed era sicuro di non averla mai vista. Cercando di rincuorare un po’ l’evidente timidezza di quella figurina bruttina ma graziosa, le andò incontro sorridendo: “Prego … mi dica! - Si ricorda, professore, sono Caterina e giovedì scorso, dopo la lezione, mi disse che se volevo potevo ritornare per farle vedere i miei appunti?! - Ma certo Caterina … me li faccia vedere!” Quell’infame bugiardo stava mentendo spudoratamente: una delle sue tante “tare” era la quasi totale mancanza di memoria visiva per le persone. Riusciva ad imprimersi in maniera indelebile nel cervello l’immagine di una conchiglia, o di un fiore visto una sola volta ed a descriverlo nei dettagli a distanza di anni; con le persone, invece, a meno di fisionomie che, per qualche ragione, lo colpivano, non c’era verso: era un vero disastro. Ma il meglio di sé riusciva a darlo con le date di nascita e con i numeri telefonici; arrivava al paradosso di ricontrollare sulla rubrica il numero di telefono delle figlie! Era fatto così.

Si mise a leggere ed a sfogliare con attenzione quegli appunti: Doveva ricordarsi ad ogni costo di quale argomento si trattava ed il titolo di un capitoletto, “Il concetto di specie”, in un attimo gli fece ricordare tutto. Si cacciò in bocca uno dei suoi sigari senza accenderlo, poi si diresse verso la grande lavagna scorrevole e, senza dire una parola scrisse: Specie, sottospecie, razza, varietà. Si voltò con un’espressione un po’ enigmatica e cominciò: “Se le chiedessi di farmi capire, in dieci parole, il concetto di specie, lei come me lo spiegherebbe?”. La ragazzina che già era un po’ intimidita, di fronte a quella domanda a bruciapelo iniziò a balbettare qualche frase smozzicata: “La specie è … No Aspetti! Una specie si definisce tale se …” Prima che quella poveretta andasse definitivamente nel pallone, l’anziano la interruppe e, sorridendo bonariamente, le disse con tono rassicurante: “Lei mi deve scusare! Ma le ho fatto volutamente questa domanda non per metterla in imbarazzo, gliel’ho fatta perché questo è, in assoluto, uno dei concetti più difficili da sintetizzare e, mi creda, non solo per lei. Una delle definizioni che più mi soddisfa e quella formulata da Mayr nel 1963, quando non solo lei, ma anche i suoi genitori erano ancora nel mondo dei sogni, Mayr scrisse che: Le specie sono gruppi di popolazioni interfeconde isolate riproduttivamente da altri gruppi simili. Adesso provo a spiegarglielo nella maniera più semplice”.

Caterina prese velocemente il suo quaderno di appunti e, dopo essersi spinta per bene gli occhiali verso la fronte, si preparò a scrivere. L’anziano raccolse un po’ le idee per una delle sue solite filippiche ma, proprio mentre stava per iniziare, gli tornarono in mente le parole del nipotino: “Nonno! Stai parlando con me, non con uno dei tuoi colleghi!”. Guardò per un attimo Caterina per quello che realmente era: una ragazzina e di colpo cambiò strategia. “Non importa che scriva; basta che mi segua e vedrà che è facilissimo. Lei ha visto qualche puntata di Lost? Di quel serial televisivo sui naufraghi? - Si”, rispose Caterina senza capire in perché di quella strana domanda. “Bene! Ora ipotizziamo che i naufraghi di Lost non siano solo un centinaio, ma qualche migliaio e che l’isola non sia un’isola, ma un intero continente sconosciuto, ancora disabitato dall’uomo. Un continente con tutte le sue differenze ambientali e climatiche: Zone tropicali, polari, deserti, laghi, foreste e catene montuose”.

La ragazzina ascoltava quella strana storia con un misto d’incredulità e di curiosità. Non riusciva a capire se quella era una storiella per deficienti, od una spiegazione scientifica seria. Non era abituata ad insegnanti di quel tipo. “In un primo momento”, proseguì l’anziano, “i naufraghi si organizzano per sopravvivere, proprio come in Lost, ma in breve cominciano a formarsi i primi gruppi di affinità: Preferenze alimentari, lingua madre, cultura ed interessi; per le ragioni che lei vuole. Questi gruppi, però, continuano a vivere assieme per la reciproca sopravvivenza. Con il tempo i naufraghi cominciano ad impadronirsi delle opportunità di quel continente, ma imparano anche ad evitare i pericoli: piante ed animali velenosi, sabbie mobili e crateri in eruzione. Con il passare degli anni nascono i primi bambini ma, allo stesso tempo, le differenze fra i vari gruppi si fanno sempre più profonde, fino a diventare inconciliabili. I vegetariani si spostano definitivamente nella foresta al di là del grande lago; i più carnivori, che sono anche cacciatori, si stabiliscono nelle savane e nelle praterie al di là delle montagne, mentre quelli che preferiscono il pesce ed i frutti di mare rimangono lungo la costa”.

Caterina iniziò a capire che quella era tutt’altro che una storiella per bambini deficienti: era una vera spiegazione scientifica, solo che le veniva, per così dire, somministrata in maniera talmente semplice che, per l’appunto, anche un deficiente l’avrebbe potuta capire ma, soprattutto, via via che il racconto proseguiva iniziava quasi ad intuire gli eventi successivi. “I vari gruppi si separeranno definitivamente e, con il passare delle generazioni, muteranno anche i linguaggi, per corrispondere sempre meglio alle differenti esigenze di vita. Senza rendersene conto però, si ritroveranno isolati anche riproduttivamente dagli altri gruppi, con i quali non ci saranno neppure conflitti, perché ognuno si è conquistato una propria nicchia ecologica, indipendente da quella degli altri. Al contempo gli individui maggiormente dotati di tutte quelle caratteristiche indispensabili alla loro sopravvivenza, inizieranno ad avere una maggiore possibilità di riprodursi, in quanto dominanti. Risultato: fra qualche migliaio di anni e dopo varie centinaia di generazioni, l’isolamento riproduttivo, la prevalenza a generare nuove vite da parte degli individui più idonei e le differenze fisiche che insorgeranno a seguito delle diverse condizioni ambientali dei vari gruppi iniziali, porteranno quasi sicuramente all’insorgenza di quel fenomeno che i genetisti chiamano la deriva genetica. La speciazione. I diversi gruppi iniziali interfecondi diverranno riproduttivamente incompatibili tra loro, perché i rispettivi genomi si saranno differenziati irreversibilmente: Ormai sono diventati tre specie diverse anche se molto simili fra loro e, magari i futuri paleontologi li battezzeranno come Homo maritimus, Homo silvestris e Homo savanensis. Semplice no?”.

Caterina era incredula. Era tutto così chiaro, che le sembrò del tutto inutile buttare giù due appunti: Non avrebbe mai dimenticato la spiegazione di quello strano Prof. che, all’inizio le aveva detto “Basta che stia un po’ attenta!”. Salutandolo la ragazzina chiese: “Grazie professore! Posso tornare a disturbarla un altro giorno? - Oh no! Non mi disturba affatto signorina! Torni pure quando vuole”.

L’indomani sarebbe venuto a trovarlo per un paio di giorni Marco. Era un suo collega, ma soprattutto un caro amico che se ne stava sempre in giro per il mondo, saltando a bordo della prima nave oceanografica che gli capitava a tiro. Tutte le volte che si vedevano c’era sempre qualche sacchetto di conchiglie per il museo dell’anziano; in genere erano materiali abissali molto difficili da ottenere e che solo i grandi musei potevano avere.

Quella volta avrebbero riguardato le bozze di un lavoro che stavano scrivendo assieme, ormai maturo per la pubblicazione. Quello che dovevano ancora a definire era la posizione sistematica di certi strani esemplari. Non riuscivano a capire se si trattava di una nuova specie, o se avevano messo le mani su di una popolazione abissale di una qualche conchiglia di media profondità. Quando, infatti, alcuni molluschi che normalmente vivono attorno ai 300/400 metri, per qualche oscura ragione si spingono verso le zone abissali, certe volte tendono a mutare un po’ la morfologia della loro conchiglia; era un fenomeno abbastanza frequente che i due conoscevano bene.

“Prima di partire per la Nuova Zelanda”, esordì Marco con un’espressione dubbiosa, “avevo mandato anche qualche esemplare a Stoccolma ed a Parigi, ma anche loro mi hanno risposto picche; certo che queste bestie sono parecchio strane! Peccato che sono tutte morte e non possiamo vedere com’era fatto il padrone di casa. Tu sei andato in Università per fare le foto al SEM?”. Dandosi una sonora pacca in fronte, l’anziano si alzò di scatto: “Vedi quanto sono rincoglionito … certo che ci sono andato! La protoconca è simile a quella di altre Pleurotomella e potrebbe anche rientrare nel campo della variabilità della gibbera, ma c’è qualche cosa che non mi convince: Guarda!

SEM è l’acronimo inglese per indicare il Microscopio Elettronico a Scansione.

La protoconca, invece, è la parte embrionale di una conchiglia ed i suoi caratteri sono molto importanti per stabilire con certezza a quale specie appartenga. Spesso, infatti, in presenza di condizioni ambientali particolari, la normale morfologia di una conchiglia può mutare in maniera considerevole. La protoconca, invece, essendosi formata all’interno dell’uovo, non risente delle condizioni ambientali ed è espressione solo dei suoi caratteri genetici, permettendo un’identificazione certa.

Marco osservò a lungo quelle foto ed ogni tanto rompeva il silenzio con dubbiosi brontolii e qualche solitario “Bah!”. Appoggiò sul tavolo con delicatezza quelle immagini come se fossero di vetro soffiato. Si dette una bella grattata sulla nuca evidenziando la sua indecisione: “Si! Può anche essere una varietà della gibbera, ma le differenze sono tante e poi queste sembrano fatte tutte con lo stampino, mentre la gibbera ha un reticolo piuttosto variabile. Quindi, visto che non abbiamo le parti molli, per adesso direi di limitarci a descriverla solo come una sottospecie della gibbera, oppure aspettiamo di beccarne una viva, così non rischiamo di dire stupidaggini; se ne leggono già tante di sciocchezze!”.

L’anziano rimase per un po’ perplesso: da quando aveva ripreso a studiare Antropologia, non riusciva più ad accettare il concetto di sottospecie. La considerava una categoria sistematica di puro “comodo”. Una sorta di rifugio pratico dove riporre tutto ciò che non si riusciva a definire con certezza come specie: per lui era una definizione priva di ogni preciso significato reale.

La Sistematica è lo studio delle diversità e delle affinità dei vari organismi viventi. Questa disciplina, “inventata” dal naturalista svedese Carlo Linneo (1707-1778), ordina entro categorie che dal generale tendono al particolare, tutti gli animali e le piante conosciute. (Es.: Regno, Classe, Ordine, Famiglia, Genere, Specie).

Era da tempo che pensava e ripensava, anche in termini linguistici, a quale era il reale significato del termine sottospecie, ma l’unica definizione che, in qualche modo, che lo soddisfaceva non era certo riferibile ad una qualsiasi entità naturale. Per lui definire un essere vivente come una sottospecie era dispregiativo; gli faceva venire in mente l’orribile termine di razza. Paragonava il valore di quel termine a quello di sottoprodotto e, quindi, riferibile ad un qualche cosa di venuto male, o ad un prodotto di bassa qualità. Proprio come un “olio di sansa”: l’ulteriore spremitura degli scarti delle olive, dopo averne estratto il prezioso “olio vergine”. Ed allora cosa poteva indicare quel termine se applicato ad un animale: Un topo venuto male? Un topo non proprio topo? Un topo che assomiglia un poco ad uno scoiattolo, ma non è né un topo, né uno scoiattolo? Più ci pensava e più che quel termine, almeno da un punto di vista naturalistico, non gli sembrava avere senso.

Nella sua mente passarono velocemente in rassegna i vari tipi umani che qualcuno, in passato, aveva definito come razze ed addirittura sottorazze: Gli Indo-Europei. I Mongoloidi. I Negroidi gli Australoidi e molti altri. Ma gli tornarono anche in mente i “risultati scientifici” di un famoso antropologo italiano vissuto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, nei quali si evidenziava che i Cristiani venivano maggiormente colpiti dal vaiolo e dal tifo petecchiale, mentre gli Ebrei avevano una maggiore propensione, tra l’altro, verso le malattie nervose e mentali, propensione questa derivante, secondo un altro “illustre studioso” inglese, della loro “spiccata tendenza al commercio ed alle professioni liberali”.

“Cosa ne pensi Marco della validità del concetto di sottospecie o, per lo meno, che significato sistematico gli dai!” Il suo amico lo guardò sogghignando e, conoscendo già dove voleva andare a parare l’anziano, gli ripassò la palla: ”Lo so bene! Sono anni che discutono su questo. Me l’hai già accennata la tua idea. Spiegamela un po’ meglio”. Quella era una buona occasione per portare Marco sulla sua idea e non voleva incasinarsi come suo solito, quando cercava di spiegare le cose semplici. “Fatto fermo il concetto di specie biologica di Mayr, questo implica anche il riconoscimento implicito delle specie gemelle, realtà questa ampiamente verificata”.

Con il termine specie gemelle si indicano due entità geneticamente diverse, ma molti simili dal punto di vista morfologico, spesso distinguibili solo da occhi esperti, come lo possono essere alcune rane, certi coccodrilli od anche certi topi. Le specie gemelle possono essere simpatriche se convivono nello stesso areale geografico, od allopatriche se vivono separate geograficamente. Nel caso di un simpatria, le due specie sono comunque separate da barriere riproduttive (incompatibilità), od abitano nicchie ecologiche diverse.

“Ma a questo primo concetto”, proseguì l’anziano, “proviamo ad accostarci anche quello di una continua evoluzione, alla quale è soggetta la maggior parte delle specie; una lenta ma costante evoluzione verso un processo di speciazione, attraverso la loro diversificazione in varie popolazioni. Mi spiego meglio, ma per farlo non parliamo più di conchiglie e passiamo all’Antropologia e, più precisamente all’Ecologia umana: un argomento che conosci poco, così non hai preconcetti e non m’interrompi”. Alla parola Antropologia Marco saltò sulla sedia e con un’espressione un po’ angosciata, esclamò: “Eh no è! Adesso non mi ricomincerai mica con le tue solite pippe sui tuoi scimmiotti fossili eh!” "No no! Non ti preoccupare! Non ti parlo di arcantropi, ma dell’umanità attuale”, lo rassicurò subito l’anziano. “Allora. Da un punto di vista naturalistico, secondo te cosa sono le varie razze nelle quali qualcuno si ostina a suddividere l’attuale umanità: Bianchi, gialli, neri, a strisce od a pallini che siano”. L’amico ci rifletté brevemente e poi rispose: “Beh! Le definirei come il risultato di differenti strategie adattative alle varie condizioni ambientali, sotto l’influsso delle quali si sono naturalmente selezionate le varie popolazioni umane”. “Perfetto. Non fa una grinza!” rispose l’anziano. “Gli individui delle popolazioni più esposte ad una forte irradiazione solare che vivono in ambienti di savana, producono grandi quantità di melanina, ma con il passare di centinaia di generazioni, quella popolazione tenderà a trasformare questo semplice carattere acquisito in un carattere geneticamente trasmissibile. Infatti, essendo riproduttivamente più avvantaggiati i soggetti possessori del gene, o dei geni che, semplificando, potremmo definire come “preposti” alla produzione di quel pigmento, con il tempo la pelle nera diventerà un carattere genetico di quella popolazione. Lo stesso, ovviamente vale per la trasmissione dei caratteri genetici relativi agli occhi azzurri ed ai capelli biondi, per le popolazioni adattate ai climi freddi, e così via”. Marco assentiva, ma era visibile che tutto ciò non lo convinceva del tutto. “Si! D’accordo. Ma tutto questo non basta! - E certo che non basta” incalzò l’anziano che iniziava ad intravedere la possibilità di portare il suo amico sulle proprie idee. “E infatti non dobbiamo dimenticarci anche di un altro fattore molto importante: la necessità di acquisire nuovi spazi vitali, per aver raggiunto il limite di sostenibilità del territorio che ti ospita, a causa di un certo incremento demografico. In origine, quando l’uomo non conosceva né l’allevamento né l’agricoltura, non era possibile organizzare delle riserve alimentari significative; tuttalpiù un po’ di carne secca e qualche noce e, quindi, non ci poteva essere un grande incremento demografico, ma solo dei modesti aumenti della popolazione. Ora, considerando il fatto che non c’erano automobili od aerei, questi spostamenti irradiativi avvenivano molto lentamente; è stato calcolata una velocità iniziale d’irradiazione di circa un chilometro ogni due-tre anni. Queste popolazioni, via via che si allontanavano dal luogo d’origine, ma anche dalle condizioni climatico-ambientali che li avevano plasmati, iniziarono a subire le influenze che caratterizzavano i nuovi territori e, sempre molto lentamente, a adattarsi alle nuove condizioni. Oggi parti da Nairobi in aereo; dopo dodici ore scendi a Helsinki e t’infili il cappotto!

Marco incominciò ad intuire la tesi del suo amico. La cosa lo incuriosiva non poco, soprattutto perché, almeno fino a quel momento, non trovava niente d’illogico in quel discorso: Anzi. “Bene” riprese l’anziano “l’originaria popolazione lentamente s’irradia, adattandosi gradualmente alle nuove condizioni ambientali ed a plasmarsi morfologicamente sotto i suoi influssi, ma non ci scordiamo di un altro fattore molto importante: i periodici mutamenti climatici del tardo Pliocene e del Pleistocene. L’alternarsi dei lunghi periodi glaciali e dei periodi tropicali che investirono le attuali aree temperate del pianeta, come m’insegni tu che sei anche un geologo. Ma quello che voi geologi spesso non considerate, sono le conseguenze che questi mutamenti ingenerarono sull’uomo. Infatti, in termini di generazioni umane, certe volte questi stravolgimenti climatici s’imposero nel giro di una decina di generazioni appena, come nel caso dell’ultima glaciazione; il Würm. Risultato, sempre rimanendo al Würm: “Una parte della popolazione umana europea si adatta alle nuove condizioni e, per così dire, nasce il Neanderthal; un’altra si leva dalle scatole perché la steppa e la taiga che avanzavano non gli garba tanto e migra verso condizioni più idonee. Ora. Alla luce di tutto questo, che non mi sembra proprio campato in aria, come classificheresti le varie popolazioni umane odierne: Sottospecie della forma originaria? Razze? Forme geografiche? Io le definisco come ecotipi a valenza geografica. Ma questi ecotipi, oggi non potranno più dare origine, con il tempo, a nuove specie, perché con la facilità di spostamento sono cadute tutte le barriere geografiche e nessuna popolazione, grazie a Dio, può più considerarsi geneticamente isolata o pura, come certi imbecilli ancora vorrebbero”.

Marco rimase zitto per quasi un minuto, con lo sguardo incollato al suo bicchiere di grappa che faceva ruotare lentamente sul tavolo con movimenti ritmici: “E tu quindi sostieni che quelle conchiglie che, per comodità, noi etichettiamo come sottospecie, non potendo saltare a piacimento sul primo sommergibile e, quindi, continuare ad incrociarsi, non sarebbero altro che le vecchie prospecie di Schilder! - Tutte magari no. Ma una buona parte di queste si!

Decisero che per il momento si sarebbero limitati ad indicare quelle strane conchiglie solo come Pleurotomella sp., od al massimo come Pleurotomella “affine alla” gibbera, aspettando di beccarne almeno una viva.


di Gianluigi Bini



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