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Malakos

Per la serie "Storytelling" - A Parigi



Tempo di lettura 10 minuti

Erano più di vent’anni che l’anziano non varcava quel grande portone ed una sensazione di malinconia mista ad emozione s’impadronì di lui. Apparentemente non era cambiato niente: il lungo cancello nero di legno e la vecchia portineria erano ancora lì. Aprì sicuro la piccola porta laterale che permette di aggirare il cancello e, attraversato l’austero colonnato, si fermò al centro del grande cortile interno. Prima di alzare lo sguardo verso l’alto, si voltò un po’ intorno: c’era solamente una piccola auto bianca, tanto nuova quanto anonima. La vecchia Campagnola color sabbia non c’era più e non c’erano più neppure le tre Land Rover a passo lungo che, indistruttibili, avevano macinato migliaia di chilometri nei deserti africani e dell’Afganistan. Al loro posto, adesso, c’erano delle eleganti fioriere. Alzò lentamente lo sguardo verso l’alto e, con un sorriso un po’ triste, guardò quelle finestre solo in apparenza anonime. Per lui, invece, ognuna aveva un nome legato ad altrettanti ricordi e si trovò a sussurrare: “Pardini, Quinzio, Messeri, biblioteca”.

“Scusi. Cerca qualcuno?” La voce, né gentile né sgarbata, del portiere lo riportò in un attimo al presente: Ormai non c’era più nessuno che lo conosceva. “Buongiorno! Si! Mi aspetta il Professor von Löwenstern”. Ma il suo vecchio Prof l’aveva visto arrivare da una delle grandi finestre dell’ultimo piano ed era già sceso. Uscendo da una piccola porticina, oggi trasformata in un moderno ascensore, il vecchio antropologo stava già venendo spedito verso di lui. Se possibile era diventato ancora più magro. I lunghi capelli che gli scendevano sulle spalle erano quasi completamente bianchi, ma era sempre lui: Agile e scattante come un ragazzino.

Mentre il vecchio si avvicinava, i due si guardavano fissi negli occhi senza una parola. Giunto a pochi passi dal suo allievo il Prof si fermò per un attimo, poi un abbraccio forte e muto allacciò i due amici. Le prime emozionate parole che i due dissero quasi all’unisono, erano i loro consueti complimenti: “Vecchio porco! … Carogna! … Brutto figlio di…!” e via così. Domandandosi a vicenda come andavano le cose, i due si diressero verso il loro vecchio bar all’angolo fra Via del Corso e Via del Proconsolo, proprio dietro Piazza del Duomo, nel cuore di Firenze. “Allora”, iniziò l’anziano, “che roba è questo Sahelantropo. Incredibile! Sette milioni di anni e, per di più a quasi tremila chilometri a Nord-Ovest della Rift Valley”. Per i due studiosi quelle poche parole erano più che sufficienti per descrivere l’importanza di quella scoperta ma, soprattutto, lo scompiglio che la stessa gettava fra tutti i ricercatori più restii a cancellare di colpo tutte le certezze acquisite negli ultimi venti anni circa.

La Rift Valley è una profonda spaccatura lunga circa 3.500 Km che, partendo dal Mozambico, sale verso nord attraverso lo Zambia, la Tanzania, il Kenya, per spingersi al nord sino alle coste etiopiche del Mar Rosso meridionale. A causa di violenti movimenti tettonici avvenuti circa dieci milioni di anni fa, le aree ad Est di questa spaccatura si innalzarono e, a seguito di varie concause, iniziarono ad inaridire progressivamente, mentre la gran parte dell’Africa continuava ad essere ricoperta da rigogliose foreste: A sua volta le zone ad est di questa spaccatura sono percorse da numerose faglie minori; una di queste è detta la Rift Valley.

“Un paio d’anni fa Brunet mi ha mandato un calco di quel cranio. - Conosci bene Brunet?”, chiese l’anziano al vecchio, “Abbiamo lavorato assieme per anni nel Fezzan, quando tu eri in Australia. Vieni su in Istituto che te lo faccio vedere!”

Nelle loro mani anche i fossili più antichi riprendevano magicamente vita e parlavano, ma quello, anche se fatto bene, era solo un pezzo di gesso e rimase muto. Era fondamentale toccare l’originale; scrutare ogni più piccolo dettaglio che un calco non poteva certo riprodurre. Ad esempio, studiando al microscopio le minuscole incisioni che il fossile poteva aveva sui denti, avrebbero capito quali erano le sue preferenze alimentari ed anche la più piccola cicatrice presente sull’osso, poteva disvelare qualche cosa del suo passato.

Rompendo il silenzio che era calato di fronte a quel gesso, il vecchio esclamò: “Qui per capirci qualche cosa bisognerebbe vedere bene l’originale. Perché non andiamo a Parigi da Brunet prima che lo riporti nel Ciad?”. L’idea era decisamente allettante e poi, Parigi era una città meravigliosa ed ogni occasione era buona per ritornarci. “E perché no! Però portiamo anche Marisa e Wanna”, disse l’anziano. A quella proposta il vecchio storse un po’ la faccia. Era sempre restio a portare la moglie sugli scavi: non riusciva proprio a conciliare il lavoro con la famiglia. Quando lavorava sul campo per lui la presenza della moglie era una distrazione inaccettabile. “Ma dai! Non andiamo mica a scavare. Si va a fare una girata a Parigi! - Si … hai ragione”.

Wanna, Marisa ed il vecchio Prof. parlavano bene francese, mentre l’anziano, pur se lo leggeva e lo capiva per averlo studiato da giovane, appena apriva la bocca gli usciva l’inglese o lo spagnolo. Era più forte di lui. Non aveva mai amato il francese ma, se vogliamo, neppure l’inglese: era solo molto semplice e comodo ed ormai era un po’ la sua seconda lingua. Aveva studiato, lavorato e vissuto molti anni in Australia; e poi l’inglese era ormai la lingua ufficiale della scienza. Per lo spagnolo invece no. Il suo era un amore viscerale per quella lingua. Non lo aveva mai studiato, ma se ne era impadronito quasi subito fino dal primo viaggio che con sua moglie fecero in Spagna, più di quindici anni prima, ma di questo parleremo in seguito.

Alloggiarono in un grande e modernissimo albergo quasi a metà degli Champs Elysées. Era una fredda mattinata di novembre ed il cielo era particolarmente limpido. Dal loro albergo si vedeva bene l’Arco di Trionfo e, sullo sfondo di questo, in lontananza, chi conosceva bene Parigi poteva anche intravedere l’inconfondibile sagoma della Défance. Guardando invece verso il centro, in leggera salita ed a quasi un chilometro da loro, c’erano gli sconfinati giardini delle Tuileries. Se possibile Parigi gli sembrò ancora più bella dell’ultima volta.

Marisa amava gli Impressionisti, così Wanna la portò subito a vedere il Museo d’Orsay. I due studiosi, invece, presero un taxi ed in dieci minuti arrivarono al Trocadéro dove, dal 1880, c’era il Musée de l’Homme. Ma ormai quella era solo la vecchia sede, perché tutta la parte museale era stata spostata nei nuovi padiglioni appositamente costruiti, mentre nella sede storica erano rimasti i ricercatori con i loro laboratori, acquisendo tutti gli spazi del museo. Appena varcarono la soglia i due sentirono nell’aria quell’impalpabile, ma inconfondibile, profumo di fossile e di antico, odore questo che solamente chi amava la materia poteva avvertire. Erano elettrizzati come bambini: il tempio mondiale dell’Antropologia.

Il Professor Brunet, che già li aspettava al bar del museo, si fece incontro al suo vecchio amico e, accogliendolo con un sincero quanto plateale Mon ami!, abbracciò con energia il suo collega. Non conosceva l’anziano, ma dopo pochi scambi d’opinione di fronte a quell’improbabile brodaglia nera che i parigini si ostinano a chiamare caffè, entrarono in sintonia.

Appena giunsero di fronte allo studio di Brunet ai due studiosi iniziò a battere un po’ il cuore per l’emozione. Entrarono e la loro attenzione fu subito catturata dalle centinaia di fossili disposti in bell’ordine su due lunghi tavoli: Strani coccodrilli dal muso sottile come quello del Gaviale del Gange; elefanti, ippopotami, giraffe, vari carnivori e molte scimmie. “E’ la fauna associata al Sahelantropo” spiegò Brunet. Attratti da tutti quei resti, i due non si accorsero di essere arrivati di fronte ad un terzo tavolo: “Eccolo qua!”, disse senza alcuna enfasi il francese. Per lui era normale; ce l’aveva a disposizione tutti i giorni. I due erano senza fiato e, per un istante, non credettero a quello che vedevano. Lì di fronte a loro c’erano ben quattro incredibili fossili. C’erano quasi tutti i principali attori delle fasi più antiche del processo di ominazione. Quattro fossili che, nel loro insieme, testimoniavano le tappe fondamentali di quasi otto milioni e mezzo di evoluzione, ricompresi fra i dodici ed i tre milioni e mezzo di anni fa: l’Uranopithecus, il Sahelanthropus, il femore del misterioso Orrorin ed un cranio quasi completo di Australopithecus afarensis.

Il misterioso Uomo del Sahel sembrava quasi aspettare i due studiosi. Il suo lungo incisivo superiore, l’unico che gli era rimasto, lo faceva appoggiare al piano in maniera un po’ sbilenca. Le sporgenze ossee che sovrastavano le orbite, che nel loro gergo definivano Toro sovrorbitale, erano enormi; decisamente più marcate e potenti di quelle dello sfortunato scimpanzé che aveva involontariamente prestato il suo cranio alla scienza, e che ora se ne stava accanto al fossile per un confronto diretto.

I due si avvicinarono quasi con timore ed all’anziano scappò un sommesso “Oh mio Dio! … non ci posso credere. Ci sono quasi tutti!” Il vecchio professore, invece, rimase in silenzio. Si scurì in volto e, aggrottando la fronte, diede maggior risalto alle sue rughe. Brunet si accorse che il suo vecchio amico era turbato. La sua proverbiale freddezza con la quale esaminava, distaccato, anche i reperti più interessanti, era svanita. Una profonda emozione si era impossessata di lui, tanto da fargli tremare un po’ le mani.

“Non so che dirvi! E’ talmente rivoluzionario che …” Al vecchio mancarono le parole giuste per descrivere le sensazioni che quel fossile gli suscitava. Con un’insolita calma si sedette al tavolo e cominciò a rigirarsi lentamente fra le mani quell’enigma. Dopo poco, però, riacquistò la sua consueta sicurezza ed in maniera secca disse a Brunet: “Mettiamolo sul Piano di Francoforte e vediamo che succede! - Lo prendo io” disse l’anziano mentre già si dirigeva verso lo strumento; di fronte a quei due “mostri” si sentiva quasi uno scolaretto.

Il Piano di Francoforte è uno strumento che serve a orientare nello spazio un cranio in una posizione anatomicamente corretta, rendendo significati-ve le varie misure antropometriche e, nel particolare, l’ampiezza di certi angoli. Il corretto orientamento di un cranio nello spazio segue alcuni principi basilari comuni a tutti i Vertebrati, legati soprattutto al mantenimento dell’equilibrio.

Il vecchio posizionò per bene il marchingegno e, con gesti sicuri, sistemò senza troppi riguardi il prezioso fossile sul quel trespolo. Prima di serrarlo si alzò e, girando attorno al tavolo, si abbassò di continuo per osservare bene che il posizionamento fosse corretto. Mentre il vecchio controllava, l’anziano e Brunet raccoglievano qua e là tutti gli altri strumenti necessari: Compasso a branche curve, calibro, goniometro, livellette ed altro ancora. Una volta certo della posizione corretta, il vecchio si rimise a sedere e, in silenzio, allineò gli strumenti alla sua sinistra. Guardo dritto nelle orbite vuote del fossile e, quasi con un tono di sfida, mormorò: “E ora a noi due. Vediamo se mi fai capire meglio chi diavolo sei!” Strinse leggermente i morsetti che avrebbero impedito qualsiasi movimento del cranio e cominciò sicuro.

Dopo un’ora abbondante di misurazioni, il vecchio si tolse gli occhiali e, ponderando bene ogni singola parola affermò:

Per decenni le zone orientali dell’Africa sono state ritenute come la vera Culla dell’Umanità, ma il ritrovamento fatto nel Ciad del Sahelanthropus, fatto fra l’estate del 2001 e l’inizio del 2002, ha scardinato questa convinzione. Il Sahelantropus tchadensis, infatti, con i suoi sette milioni di anni, è comparso ben tre milioni di anni dopo che la profonda spaccatura della Rift Valley si era formata, dimostrando che questa non rappresentò affatto una sorta di barriera invalicabile per i preominidi ma, addirittura, che questi sarebbero arrivati in Etiopia ed in Kenya quando la grande faglia si era già aperta.

L’Ouranopithecus, invece è la più antica Scimmia antro-pomorfa conosciuta. Risale al Miocene (circa 10-12 milioni di anni fa) e viveva nelle savane dell’odierna Grecia.

“Sicuramente è sulla linea degli ominidi, ma quali relazioni più o meno dirette vi possono essere tra questo e gli Australopiteci è difficile dirlo con certezza, anche perché non è possibile capire se camminava eretto o meno. Purtroppo, infatti, al cranio mancavano ampie porzioni della base e solo la posizione del foro occipitale gli avrebbe permesso di capirlo con certezza.

Era già l’una passata, quando i due uscirono dal museo. Ognuno di loro aveva una borsa di carta con stampigliata la scritta “Musée de l’Homme - Paris”; erano piene di calchi che Brunet gli aveva regalato. I due avevano avuto la possibilità di studiare per ore gli originali e per loro, quei calchi, non erano più solo dei muti pezzi di gesso.

“Siamo qui! Abbiamo fame!” Wanna e Marisa li aspettavano sedute su di una panchina. Non c’era vento e stavano godendosi il tepore di quel pallido sole parigino.

L’indomani mattina ripartirono ma, a differenza del viaggio d’andata, le due coppie non erano sedute assieme. Questa volta le mogli si sedettero nelle poltrone d’avanti, mentre i due uomini continuavano a confabulare fra loro, rigirandosi tra le mani quegli strani crani, sotto gli sguardi esterrefatti dei loro vicini.


di Gianluigi Bini

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